Londra tra plastica e monaci Hare Krishna

Londra tra plastica

Londra tra plastica e monaci Hare Krishna.

Ti ho parlato diverse volte dell’importanza che la scrittura ha nelle nostre vite, in particolare in questi articoli sull’importanza di tenere un diario e sulla tecnica di scrivere zen. Questa volta ho deciso di condividere un pezzo del mio diario di viaggi consapevoli. Parleremo di Londra e di come mi ha cambiato visitarla, buona lettura!

“Ma perché vanno tutti di fretta? Ma perché anch’io sto andando di fretta?”

Ricordo che queste due domande mi colsero di sorpresa mentre stavo attraversando la strada e stavo osservando la gente intorno a me, che quasi marciava invece di camminare, dritta e decisa verso chissà dove, con lo sguardo vitreo e assente. Mi immaginavo ci fosse un direttore d’orchestra per ogni metropoli, che dirigesse il tempo e gli strumenti per ogni città e da qualche parte in quel cielo plumbeo qualcuno aveva deciso che quello sarebbe stato il ritmo dei londinesi.

Ero a Londra, un sogno che si avverava.

Fu toccata e fuga, sempre nell’ambito del mio primo progetto europeo di training course, ma io, studentessa universitaria squattrinata di Lingue e Letterature straniere, innamorata dell’inglese fin dalla terza elementare, finalmente avevo trovato il modo di visitare la città di cui più avevo sentito parlare negli ultimi anni e praticamente gratis!

Avevo solo bisogno di un posto dove dormire e, come sempre, l’Universo non tardò a venirmi incontro con la soluzione.

Una mia cara ex compagna di liceo viveva a Londra già da un po’ e in quei giorni sarebbe stata via, quindi mi offriva il suo alloggio tutto per me.

Anastasia mi accolse nelle mie primissime ore a in città. Mi sentivo come ubriaca di luci sfavillanti, colori dagli annunci pubblicitari, i suoni del traffico, l’inglese vero parlato per strada e non quello studiato sui libri.

La mia amica mi regalò persino un mini abbonamento per l’autobus e salì con me su un double-decker bus, quelli rossi a due piani che avevo visto solo nei film e sentito nelle canzoni.

“And if a double-decker bus

Crashes into us

To die by your side

Is such a heavenly way to die…”

E per davvero mi sentivo così, potevo anche morire ma ce l’avevo fatta, ed ero immersa e leggera in questo caos.

Avevo passato le settimane precedenti a documentarmi sulle maggiori attrazioni londinesi e su quelle strettamente personali che avrei voluto visitare. Da fan di Harry Potter e Sherlock Holmes, avevo già tutto l’itinerario da percorrere in quei giorni. Musei e gallerie erano al primo posto della lista e avrei fatto quasi tutto il percorso a piedi con cartina alla mano, per poter avere tutto il tempo e il gusto di passeggiare con il naso per aria, pronta a immergermi in ogni dettaglio della città.

La verità era che non avevo mai preso una metropolitana in vita mia e temevo di perdermi con i bus. Sentivo che non potevo permettermi di sbagliare nemmeno per un secondo, perché il tempo era poco e bisognava sfruttarlo al massimo. Ci furono dei momenti in cui il mio giudice interiore fu durissimo con me, ricordandomi che in fondo ero solo una ragazzina di paese che vedeva il mondo per la prima volta. E’ bastardo, il giudice interiore, ma devo ammettere che in quel caso aveva ragione. Non ero abituata a viaggiare da sola, anzi a dirla tutta non ero per  niente abituata a viaggiare. Me ne vergognavo un po’, alla mia età praticamente non avevo mai fatto una vera e propria vacanza.

Alla fine utilizzai l’abbonamento del bus solo per tornare a casa, distrutta, la sera.

In totale ho visitato Londra per tre volte.

La National Gallery, il British Museum, Piccadilly Circus, Saint James Park, Buckingham Palace e il Big Ben, il Tate Modern, la stazione di King’s Cross, la libreria-museo dedicata a Sherlock Holmes al numero 4 di Baker Street, i quartieri di China Town, Soho, Camden, Brixton, il Kennington Park, il Millennium Bridge, il London Bridge e la Torre di Londra, questi sono solo alcuni dei posti in cui sono stata in quelle che io chiamo “le mie tre lunghe passeggiate” londinesi.

Col tempo i dettagli dei ricordi sono sfumati, i bordi dei ricordi sono sbiaditi, ma se mi concentro posso sentire di nuovo le sensazioni che ho provato in certi momenti e in alcune situazioni particolari.

Alla National Gallery, galleria con circa 2300 dipinti a Trafalgar Square, c’era un silenzio surreale nelle sale, le poche persone a parlare bisbigliavano per lo più.

Mi commossi davanti ad alcune tele in particolare: quelle di Joseph Turner, con i suoi cieli sfumati, i colori intensi, le imbarcazioni, e poi quelle del mio caro, carissimo, Vincent Van Gogh.

Una personalità tormentata, con un mondo interiore ricchissimo, una sensibilità che gli costò la lucidità mentale. Lo sentivo vicino emotivamente, un uomo soggetto a scatti d’ira quando non riusciva più né a contenere il suo mondo interiore né a esprimerlo in maniera efficace con la sua arte. Quando vidi i suoi Girasoli scoppiai a piangere. Decenni di separazione tra me e quell’anima straordinaria si erano annullati. Avevo davanti a me questi quadri e avrei tanto voluto toccarli. Da vicino si vedevano chiaramente i grumi di colore accumulato dalle pennellate, sembrava un’opera tridimensionale e in qualche modo lo era. Potevi vedere la consistenza del colore spalmato sulla tela.

E poi il ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, la Vergine delle Rocce di Leonardo, la Dama in piedi di Jan Vermeer, lo stesso pittore del più fortunato Ragazza con l’orecchino di perla.

Per una fan di Harry Potter come me, non poteva mancare una capatina ai luoghi più significativi della saga, come la stazione di King’s Cross dalla quale parte, ogni primo settembre, il treno per Hogwarts. Vicino allo store ufficiale con il merchandising, c’era un finto carrello con valigia incastonato per metà nel muro, con cui fare una foto pochi secondi prima di essere risucchiati dall’altra parte, attraverso il muro, sul binario nove e tre quarti, con tanto di commesso del negozio che ti fa volare la sciarpa di Grifondoro per fare un finto effetto vento.

Alla fine la scelta di passeggiare fu la più azzeccata, perchè avevo il piacere di vivermi i quartieri, come quello di Camden town.

Con il suo market e la gente agghindata nelle maniere più strampalate possibili, mi faceva venire voglia di comprare qualsiasi cosa vedessi, dal portachiavi dei Sex Pistols al collarino di pelle super sexy e molto anni ’90. Ogni negozietto aveva, in alto, qualcosa di gigantesco che sporgeva dal muro: un drago, una scarpa da ginnastica, dei piercing.

E poi China Town con le sue caratteristiche porte e le lanterne rosse cinesi, e Kennington con le case non proprio sicure, il parco e i suoi scoiattoli.

Soho con la sfavillante Piccadilly Circus, la vita gay notturna e il tempio Hare Krishna, i teatri e la Shaftesbury Avenue dove Harry Potter, Ron ed Hermione si materializzano perché lì è dove lei andava a teatro con i genitori.

Il quartiere di Brixton, con un passato difficile di scontri sociali e multiculturalità, che avevo sentito nominare nella canzone dei Clash quando da ragazzina amavo il punk:

“You can crush us
You can bruise us
But you’ll have to answer to
Oh, the guns of Brixton”.

Era come se la me ragazzina si fosse data appuntamento con la me di quel momento, per vedere quanto effettivamente le due coincidessero nella mia persona o vivessero due vite separate. La me ragazzina era assolutamente entusiasta di tutto ciò, di poter vedere dal vivo le strade che avevano percorso David Bowie, Amy Winehouse, J.K. Rowling, e tutti quegli autori che aveva studiato a scuola nelle ore di Inglese. Eppure dentro di me c’era la parte adulta che continuava a sentirsi inadeguata, quasi minuscola e insignificante rispetto a tutta quella magnificenza e sfavillio. Soprattutto di sera, Londra mi appariva come un formicaio gigantesco dove in fondo niente contava davvero. Le strade erano sporche, umidicce, mi sembrava che non ci fosse una vera comunicazione tra le persone che incrociavo per strada. “A Londra i rapporti non durano, perché tanto tutti sanno che qui sono solo di passaggio”. Così mi aveva detto Anastasia quella volta sul bus a due piani e mi era sembrata una frase cruda, ma aveva ragione. Ci si può vivere per un po’, per fare carriera, per imparare l’inglese, per fare caffè in una caffetteria ma poi si passa ad altro, nella maggior parte dei casi. Tutti inseguivano il sogno londinese, che sembrava promettere una certa mobilità sociale e la possibilità di aspirare a qualcosa di meglio dalla vita.

La mescolanza di persone così diverse tra loro era impressionante, o forse sembrava a me così bizzarra, ragazza cresciuta in una cittadina del Sud. E’ nell’armonia della diversità che il mondo si regge.

“Qui non importa a nessuno di uscire di casa vestito bene, non si bada all’apparenza perché nessuno ti guarda, ognuno pensa ai fatti suoi”. Anastasia mi raccontava di vedere quotidianamente per strada gente in pigiama, in ciabatte, giurava persino di aver incrociato un tizio che camminava con delle pinne da sub ai piedi, ma lei ci aveva fatto ormai l’abitudine. A me invece sembrava tutto strano ed eccessivo. I cartelloni pubblicitari erano pieni di giovani belli e accattivanti, il marketing era feroce. C’era una quantità di plastica impressionante, tutto era avvolto nella plastica. Al supermercato, mini porzioni singole di frutta, di ortaggi, imballate ed esposte. Non dimenticherò mai un piccolo shop di cibo giapponese dove ogni singolo pezzo di sushi era imballato. Nel complesso generale, mi dava l’impressione di essere una città sprecona, dove tutto passa e niente resta, finchè qualcuno di esterno non interviene a farti notare che uno scoiattolo in un parco è una cosa straordinaria, che un corvo alto fino alle ginocchia non è proprio una cosa che si vede tutti i giorni, e che è bello accettare il resto dalle mani di qualcuno e dirgli grazie guardandolo dritto negli occhi.

Stavo riflettendo su questo e altre cose, un pomeriggio in cui ero stata al Tate Modern, il museo d’arte moderna più visitato al mondo e ospitato da una struttura che una volta era una centrale termoelettrica. Da fuori l’edificio era decisamente come ci si immaginerebbe una vecchia fabbrica, con i mattoni rossi e una specie di alta ciminiera. C’era qualcosa nell’architettura dell’edificio che mi disturbava. Ma dentro la situazione peggiorò. Ammetto che ero andata lì più per curiosità che per un vero interesse, dal momento che avevo ancora nel cuore la bellezza della National Gallery. Nel Tate feci velocemente il giro dei piani ma non ci fu nulla che mi comunicò bellezza e armonia. Queste opere per me incomprensibili, mi ricordavano solo quanto il progresso ci avesse reso la vita migliore ma più fredda e meccanica. Installazioni con manichini rossi che penzolavano dal soffitto, una pecora multicolore, una saletta con suoni assordanti e cornette di telefoni. Comprai un muffin al cioccolato al bar e mi precipitai fuori a prendere aria, mi sentivo soffocare e mi ricordai che il ponte di fronte era il Millennium Bridge, l’avevo messo sulla lista perché compariva in una scena di Harry Potter. Tutta quella robaccia in stile industrial mi stava nauseando e forse anche la stanchezza mi stava facendo sentire l’atmosfera più pesante. Il muffin sapeva di chimico e mi avviai verso il ponte per fare due passi, pensando a che brutta alimentazione dovevano avere i londinesi a furia di mangiare roba plasticosa, fish and chips e uova con bacon al mattino. Camminavo sul Millennium Bridge (per fortuna, nessun dissennatore o mangiamorte era nei paraggi), totalmente immersa in questa riflessione con alcune parti di me che stavano valutando i pro e i contro del diventare vegetariana. Bistecche, petti di pollo, pancetta, per non parlare di interiora o carne di cavallo, mi comunicavano tutt’altro che appetitosità. Da bambina pare mangiassi con gusto alcune di queste cose, ma poi avevo iniziato a oppormi e ricordo di aver avuto conati di vomito mentre mangiavo carne. Fin da bambina mi ero rifiutata di mangiare cuccioli o animali di piccola taglia, quindi niente coniglio o capretto o vitello. Quell’ammasso sanguinolento e poi grigiastro non faceva per me. Sicuramente anche l’ambiente ne avrebbe giovato, così come il mio karma. A quanto pare le mie riflessioni si erano irradiate nello spazio circostante, oppure era stato il mio inconscio a captare qualche informazione precisa nell’etere che aveva fatto scattare in me queste sensazioni e riflessioni, oppure era stato il caso, la serendipità. Fatto sta che mi venne incontro una figura. C’erano altre persone lì sul ponte, eppure puntò me e si avvicinò. Era vestito di arancione, col capo rasato, e mi porse un libro.

Un monaco Hare Krishna mi aveva appena regalato un libro di ricette vegetariane selezionate dalle tradizioni culinarie di tutto il mondo.

Dopo lo shock iniziale, ebbi due conferme: il caso non esiste e sì, da quel momento sarei stata vegetariana.”

Se vuoi scoprire come ho fatto a viaggiare in tutta Europa senza spendere un euro, leggi il mio articolo qui.

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